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Casi clinici - La metafora nelle psicoterapie infantili
Ti trovi in: Casi clinici > La metafora nelle psicoterapie infantili

Articoli pubblicati nel libro:

SCUOLA DI DISCUSSIONE
E
DINAMICHE EVOLUTIVE

A cura di Aureliano Pacciolla

Primo volume
Cap. 7
Pag. 113

LA METAFORA NELLE PSICOTERAPIE INFANTILI

Di
Francesca Checcherini

Tre casi, molti tratti comuni, un solo insegnamento. Intanto si tratta di tre bambine. Sintomi e disturbi differenti ma legati, tutti, al rapporto con i genitori, con la famiglia, con la vita. Quindi - secondo tratto comune - la "velocità" del trattamento psicoterapeutico e la piena remissione, anche nel tempo, dello stato di disagio con il ritorno alla serenità propria dell'età giovanile. Un effetto tanto eclatante - perché positivo e perché conquistato nell'arco massimo di tre - quattro sedute - è stato conseguito con il ricorso a strumenti psicoterapeutici nel complesso assai semplici e comunque ben noti. Come l'uso della metafora, utilizzando come vettore la favola (ipnosi). Devo comunque dire che la rinuncia ad alcuni schemi classici e collaudati, il ricorso all'inventiva e alla creatività personale, il consolidamento dei risultati attraverso l'uso del telefono piuttosto che di ulteriori incontri sul setting, costituiscono gli elementi salienti di questa esperienza.
Nella sostanza la storia di A., F. e T. e della loro rapidissima "guarigione" sostanzia un approccio nuovo e un nuovo modo - se mi è permesso di usare questo termine - di fare psicoterapia.

Indice degli argomenti:
Il caso di "A" - Sintomo: Vomito da circa due anni
Il procedimento terapeutico per "A"
Il caso di "F" - Sintomo: onanismo e incontinenza fecale
Il caso di Teresa - Sintomo: cefalee frequenti

Pubblicazioni:
Pubblicazione sui Vertici
Pubblicazione cartacea

Il caso di "A" - Sintomo: Vomito da circa due anni
A. è una bambina graziosa di 7 anni. Bionda, con i capelli lunghi e due grandi e luminosi occhi azzurri. Essa vive con i genitori e una sorella maggiore di tre anni.
Mi ha parlato di lei, per la prima volta, un anno fa un carissimo amico, definendola la sua nipotina prediletta. Ricordo ancora la sua espressione preoccupata e il tono dubbioso della voce sulla possibilità di aiutare in maniera concreta la bambina.
A. ha un sintomo: vomita ogni giorno da quasi due anni, in maniera rituale. Appena sale in macchina con la madre per recarsi a scuola, dopo pochi minuti, rimette la colazione o, se a digiuno, i soli succhi gastrici. Il sintomo non si presenta, invece, durante il percorso di ritorno a casa né alla domenica, né negli altri giorni festivi e durante le vacanze estive, mentre si ripresenta puntualmente il primo giorno di scuola. In un primo momento i genitori pensarono che ciò potesse dipendere da disagi a scuola e andarono ad informarsi dalla maestra. Questa li rassicurò dicendo loro che A. era un'ottima alunna e aveva un buon rapporto con i compagni di classe. L'indagine dei due proseguì presso il pediatra di A. Questi disse loro che la singolarità del sintomo, tipicamente funzionale, non dava dubbi sulla sua natura psicosomatica. Suggerì, quindi, ai genitori di provare ad andare a ritroso nel tempo per individuare il periodo di insorgenza del sintomo ed evidenziare anche il più piccolo cambiamento avvenuto in famiglia. Spinti dal desiderio di risolvere al più presto il disagio della figlia, i genitori passarono al vaglio anche il più piccolo indizio. Improvvisamente la madre ebbe l'intuizione che aprì uno spiraglio sul mistero di A. Qualcosa di insolito era effettivamente accaduto all'interno dela famiglia: solo che l'episodio era passato inosservato poiché nessuno, A. compresa, ne aveva mai accennato con disagio.

Ma vediamo più nello specifico a cosa la madre si riferiva.
A. ha una sorella maggiore di tre anni. Le due ragazzine sono molto unite malgrado gli anni di differenza. Trascorrono insieme la maggior parte del tempo libero dagli impegni scolastici, sotto la supervisione dei nonni materni. I loro genitori sono due professionisti molto impegnati. Il padre è direttore di una casa farmaceutica e la madre insegna in una scuola superiore. La famiglia vive in un paese nei dintorni di Firenze. T. (così chiameremo la sorella maggiore di Alice) circa due anni prima aveva concluso la scuola media inferiore ed era stata iscritta per gli studi superiori ad un istituto situato in Firenze e quindi lontano sia da casa, sia a maggior ragione dalla scuola elementare frequentata da A. In pratica una separazione fra le due sorelle, tanto più che T. durante la settimana abitava nella casa dei nonni paterni nel capoluogo toscano. Essa tornava a casa la domenica, durante le feste e nel periodo delle vacanze. Esattamente quando A. smetteva di vomitare. Questa constatazione fu davvero folgorante. Il dramma di A. usciva allo scoperto dopo anni di mistero delineando una situazione di disagio della quale non aveva mai fatto parola e che anzi aveva "coperto" con parole di esultanza per la nuova sistemazione di studio della sorella. Pervenuti a questa conclusione i due genitori decisero di intervenire al più presto e nel giro di poco tempo la famiglia si trasferì a Firenze.
Purtroppo questa scelta coraggiosa non dette i risultati sperati. A, infatti, continuò imperterrita a manifestare il sintomo come se niente fosse accaduto.
E' a questo punto della storia che entra in scena lo zio. Così egli racconta: "sono andato a trovare le nipoti e sono rimasto colpito dalla gracilità di A. e dal pallore del suo volto". Per la prima volta viene messo al corrente del sintomo di A. La bambina aveva sviluppato una vera fobia del cibo perché nel timore di dover rimettere preferiva non mangiare.
Lo ziuo propone ai genitori di rivolgersi ad uno psicoterapeuta, e fa i mio nome. Alla sua telefonata di aiuto sono rimasta molto perplessa. Non avevo, infatti, precedenti esperienze, beninteso professionali, di bambini e non me la sentivo perciò di assumere la responsabilità di questo caso. Alle sue insistenze ho dovuto però capitolare, confidando nella lunga esperienza già maturata nella professione.
Così, quando arriva A. ho già pronto un approccio terapeutico che si è poi rivelato vincente. Tanto è vero che il sintomo è scomparso dopo un solo incontro, anche se il risultato è stato consolidato attraverso una lunga serie di telefonate di controllo.




Il procedimento terapeutico per "A"
In via preliminare ho incontrato i genitori e ho raccolto molte informazioni utili su A. Ho spiegato loro che avrei utilizzato alcune strategie terapeutiche delle quali preferivo non parlare. Mi assicurai la loro completa collaborazione.
Il giorno dopo incontrai A. La madre, dopo averla accompagnata uscì lasciandoci sole. Mi feci raccontare da A. ogni più piccolo dettaglio del suo sintomo. La bambina lo ricordava come una cosa molto fastidiosa. Ogni giorno era un vero calvario. In macchina si portava delle buste di plastica per raccogliere il vomito ma questa precauzione non era sempre sufficiente a mantenersi pulita per cui doveva tornare a casa a lavarsi e cambiarsi facendo tardi a scuola. Le dissi che se faceva tutto ciò che io le suggerivo non avrebbe più vomitato. Lei annuì fiduciosa e mi ascoltò con molto interesse.
Per prima cosa le feci un'induzione ipnotica raccontandole una favola dove lei, A., entrava nel mondo delle meraviglie ed incontrava alcuni animali (tratti pari pari dalle indicazioni di preferenza che A. stessa mi aveva suggerito in via preliminare) che erano in difficoltà. Ma tramite il loro coraggio e la loro volontà uscivano vittoriosi dalle loro "crisi".
Lo stesso messaggio lo avevo preventivamente registrato. Così ho potuto consegnare ad A. il nastro dicendole di ascoltarlo ogni giorno appena saliva in macchina pe recarsi a scuola.
Nel contempo, ho affiancato a questa tecnica ipnotica anche una tecnica paradossale. Così raccontai ad A. un episodio che la divertì molto, con un largo uso di disseminazioni ipnotiche. Naturalmente in funzione terapeutica.
Il soggetto del racconto era un bambino di due anni e mezzo di nome Carletto, una sorta di "piccola peste" per i suoi capricci e le sue disobbedienze. Fra l'altro il bambino al suo risveglio aveva il "vezzo" di cominciare la giornata trascinando tutte le sedie di casa al centro di una stanza. Né gli sculaccioni, né le carezze erano riuscite a fermare questa sorta di rito mattutino: Carletto non intendeva proprio ubbidire.
Cosa fare? Dissi alla madre di svegliare il bambino due ore prima del solito, intorno alle sette, e di mettergli a disposizione assolutamente tutte le sedie di casa perché lui, giocando potesse sistemarle in mezzo alla solita stanza. Una fatica unita al malumore della sveglia anticipata, che evidentemente Carletto non gradiva. Da quel giorno, infatti, smise di "trafficare" con le sedie per dedicarsi a giochi meno pesanti e più attinenti alla sua età.
Torniamo ad A. La storia la divertì molto Così era estremamente attenta e ricettiva quando le dissi: "anche tu hai una bambina piccola, piccola dentro di te alla quale vorresti impedire di vomitare, così come si impediva a Carletto di giocare con le sedie. L'hai sempre rimproverata proprio come veniva fatto con lui ma, allo stesso modo, lei si ostinava a farlo. Adesso ti insegno come trattare in maniera corretta con la tua bambina interiore. Le dirai ogni giorno, più volte, di vomitare così lei non si divertirà più a farlo e smetterà come ha fatto Carletto. E per essere certa che A. avesse capito le chiesi di fingere di vomitare. L'imitazione fu naturalmente ottima e mi congratulai con lei. Aggiungendo: "Ogni giorno, farai esattamente questo. Almeno per cinque volte. Chiamerai la tua bambina interiore mostrandole, come hai fatto adesso, di vomitare. Devi recitare bene ed essere molto convincente in modo che lei non abbia alcun dubbio. Questo deve restare un segreto tra noi. Ogni sera ti telefonerò e mi dirai come si è comportata la tua bambina. Se non avrà più voglia di fare quel gioco, andremo a festeggiare e potrai mangiare tutto ciò che desideri, senza più timore di vomitare". A. aderì con molto entusiasmo alla mia proposta e concordammo l'ora in cui le avrei telefonato per sapere come si era comportata la bambina.
La sera dopo, puntualmente, chiamai. Venne a rispondere la mamma. No, quel giorno A, non aveva vomitato. Nel pomeriggio aveva avuto numerosi conati ma tutto si era fermato lì. La prova che tutto funzionava a dovere secondo le mie indicazioni. Allora mi feci passare A. che, tutta eccitata e contenta, mi confidò che aveva "fregato" la bambina.
Mi congratulai con lei a lungo dicendole che doveva continuare a recitare ancora per qualche tempo, giusto fin quando non fosse convinta che la bambina avesse perso del tutto e definitivamente il "vizietto". Naturalmente anche il messaggio su nastro aveva colpito nel segno, contribuendo a fissare in A. il messaggio terapeutico. Una pratica questa che è andata avanti finché io stessa, alla luce dei risultati consolidati ottenuti, non ritenni opportuno di interromperla.
Ho continuato a telefonare ad A. ogni sera per circa un mese fino a che giudicai risolto definitivamente il caso. Una guarigione insperata, soprattutto per i tempi rapidissimi, che si è conclusa - come da solenni impegni presi - con una gran cena al ristorante. Naturalmente senza "dopo cena".



Il caso di "F" - Sintomo: onanismo e incontinenza fecale
F. è una bella bambina di 7 anni con occhi e capelli neri. Vive in un paese nei dintorni di Napoli con i genitori e un fratellino di 4 anni.
Mi è stata inviata da un neurologo. Si è messa in contatto con me la madre, raccontandomi in maniera concitata le vicende della figlia.
Nel corso della telefonata le ho spiegato che in via preliminare era necessario che io mi incontrassi con lei stessa e con il marito.
Dopo due settimane sono venuti da me. Ho cercato di mettere a fuoco lo stato della coppia e il loro rapporto prima di "affondare" l'attenzione sulla figlia.
La madre di F. è insegnante di scuola elementare, il padre è un floricoltore. Lei si definisce molto nervosa e irascibile. Evidentemente a farne le spese è proprio F. che, oltre tutto, viene anche picchiata dalla madre. Quest'ultima mi confessa di non potersi controllare soprattutto quando trova la bambina a masturbarsi.
Il padre di F. è una persona tranquilla e subisce come la figlia la nevrosi della moglie. Egli parte presto al mattino e rientra tardi la sera quindi vice solo marginalmente la relazione familiare. Ama molto i figli (la coppia ha anche un maschietto) e si dedica a loro come può e quando può.
F. non pratica solo l'onanismo, ma ha anche incontinenza fecale sia a casa che a scuola. Ogni volta la bambina rimane molto mortificata e si dispera piangendo, soprattutto quando accade fuori di casa.
Le sue bambole hanno esattamente gli stessi disturbi e lei si comporta nei confronti delle bambole esattamente come la propria madre.

Nel descrivere la pratica sessuale di F. la madre rivela un grande disagio, che aumenta via via che ci addentriamo all'interno della sua stessa sessualità. Mi riferisce di essere completamente anorgasmica e capisco che ha gravi carenze culturali sull'argomento. Nei rapporti con il marito erige grosse difese e divieti e le conseguenti frustrazioni sfociano immancabilmente sulla relazione di coppia e con i figli. Per lei la sessualità equivale al coito finalizzato alla procreazione e nient'altro. Un quadro dal quale emergono evidenti le cause dei sintomi di F. A questo punto sono in grado di decidere la mia strategia di attacco: una terapia combinata, con l'utilizzo di varie metodiche psicoterapeutiche.
Si trattava prima di tutto di "curare" la madre, quindi di intervenire sul rapporto di coppia e, contemporaneamente, anche sulla bambina.
Sin dal primo incontro con la madre abbiamo gettato le basi per una vera e propria educazione alla sessualità, anche mediante apposite letture.
Attraverso il linguaggio logoterapica abbiamo imboccato la strada che ci avrebbe condotto alla ricerca di nuovi valori e significati della vita dai quali trarre maggior serenità. La stessa preparazione è stata fatta con il padre fino a che ho ritenuto matura una terapia di coppia per risolvere definitivamente sia la disfunzione relazionale che sessuale. Nel frattempo ho avuto anche tre incontri con la figlia.
F. si è rivelata una bambina dolcissima e disponibile. Abbiamo fatto subito amicizia. Ho affrontato con un linguaggio adeguato i problemi che la affliggevano, ricorrendo fin dall'inizio ad un induzione ipnotica metaforica che avevo preventivamente registrato per lei dopo aver attinto qualche informazione dalla madre. Anche in questa circostanza i protagonisti del messaggio terapeutico erano alcuni animali amati da F. di cui la madre mi aveva parlato. Per la terapia cognitivo-comportamentale sono ricorsa a due metodiche. La prima: ogni volta che F. sentiva la necessità di masturbarsi doveva prendere un blocchetto e scrivervi: ho voglia di toccarmi la "farfallina". Doveva scriverlo tante volte fino a che non era passata la voglia. Doveva anche verificare sull'orologio quante volte le accadeva ogni giorno, a quali ore, e se di giorno in giorno la pratica diminuiva. Questo per quanto concerne l'onanismo.
Per l'incontinenza fecale ho utilizzato la tecnica paradossale. Poteva defecare ma scegliendo lei il momento e il luogo. Ogni giorno, però, avrebbe dovuto essere un luogo e un tempo diverso. Anche in questo caso doveva scrivere tutto nel taccuino e inventare una storia fantastica dove F. era la protagonista e si impegnava ogni giorno in avventure diverse e a lieto fine.
Dopo aver saputo da F. cosa le piacesse di più (la risposta fu la danza) chiesi alla madre di iscriverla ad un corso di questa disciplina per permetterle di sfuggire alle solite cose di tutti i giorni e quindi anche ai suoi sintomi. Il problema si è risolto, come d'altronde ho potuto appurare con una serie di telefonate nel corso di un intero mese. In tutto sono stati necessari quattro incontri di terapia individuale con la madre, tre con il padre, cinque con la coppia, tre di terapia individuale con F.



Il caso di Teresa - Sintomo: cefalee frequenti
T. ha 10 anni, vive con i genitori ed una sorella maggiore di 16 anni. A scuola è fra le prime della classe e teme costantemente di perdere questo primato. Una mia paziente, collega di lavoro di sua madre, è stata il tramite per il quale è venuta da me. Come al solito, in questi casi, ho ricevuto solo i genitori i quali mi hanno esposto il problema di T.

Essa accusa continue cefalee, molto dolorose, che la costringono ad uscire di scuola, o addirittura a non andarvi, quando la bambina si rifiuta di uscire di casa temendo il forte dolore.

E' anche un soggetto - mi dicono i genitori - molto timido e che non socializza più di tanto con i compagni, molto ansioso che teme il giudizio degli altri, molto permaloso, pur avendo un ottimo rapporto con la sorella maggiore. Ma probabilmente soltanto a parole, perché alla prima occasione che ho avuto di vederla e di parlarci, questa stessano sono tuttavia questi tratti di T. a impensierire soprattutto la madre, bensì le insistenti e ripetute domande che a quell'età faceva sul senso della vita e della morte, sulla inutilità dell'esistenza. Un "peso" che spinge T. a non affezionarsi alle persone delle quali, prima o poi, con la morte perderebbe l'affetto.

La bambina è stata allontanata presto dalle cure della madre che doveva lavorare ed è stata praticamente allevata dalla nonna materna. A sei anni un altro episodio che ha lasciato il segno: i ladri entrano in casa e T. li intravede nel buio, sviluppando poi una vera e propria fobia per il buio, come, d'altronde, per tutto quanto la ricolleghi a quell'episodio: a cominciare dalle musiche che accompagnano i films gialli e thriller nei momenti di maggior suspence.
Si lamenta che la madre, troppo impegnata nel lavoro, non le dedichi troppa attenzione e affetto, ma quando la madre stessa è "disponibile" fa di tutto per allontanarla e allontanarsi con il pretesto di essere impegnata nello studio o in altro. Un rifiuto inconscio legato probabilmente al "distacco" prematuro della madre nella fase post-natale.
Abbiamo detto sopra che T. è molto timida. Ma non è solo per questo motivo che essa non socializza con le compagne. Il fatto è che ha un primato (scolastico) da difendere come bene primario e dunque non si può permettere di perdere tempo con le amiche, sottraendolo allo studio, ed esponendosi così ad insuccessi che sarebbero per le "la fine del mondo". Anche per questo essa non ha mai praticato alcuna disciplina sportiva.
I genitori, che ho incontrato ancora due volte da soli, orientandoli in modo da migliorare la loro interazione con la figlia, hanno un atteggiamento estremamente protettivo nei suoi confronti che influisce direttamente o indirettamente sulla sua crescita psichica.
Dopo queste necessari e "illuminanti" preliminari, incontro, T. . E' una bambina graziosa, con occhi azzurri , capelli biondi e lisci tagliati a baschetto. I genitori la definiscono timida e introversa, ai miei occhi, invece, appare estroversa e disinvolta. Dimostra u genuino interesse a tutto ciò che le racconto. Rispondo a molti suoi quesiti sfiorando argomenti di suo preciso interesse, anche sui temi scabrosi della nascita e della morte e sul significato dell'esistenza umana.
Già questo primo incontro da risultati insperati: la madre riferisce che è molto più allegra e spensierata.
Al secondo incontro le faccio u induzione ipnotica che registro su una cassetta che le consegno perché lei l'ascolti a proprio piacimento ma almeno una volta al giorno. Il tutto accompagnato da disseminazioni ipnotiche. Le chiedo inoltre di fare, sempre a casa, alcuni "esercizi", mutuati dalla tecnica paradossale. In pratica T. deve farsi venire in alcuni momenti della giornata il dolore alla testa. E se ciò non avveniva avrebbe dovuto gratificarsi a suo completo piacimento, ad esempio scrivendo sul diario cose carine di se stessa, come anche la famiglia avrebbe dovuto partecipare compiutamente a questo "gioco" mettendo da parte sua sul tavolo qualcosa di molto concreto. Nella fattispecie l'iscrizione a un corso di pallacanestro, lo sport prescelto dalla bambina. Siamo rimaste anche d'accordo che le avrei telefonato per sapere dalla sua viva voce come le cose procedessero.
Giorno dopo giorno i dolori alla testa spontanei sono diminuiti e quando si presentano, durano al massimo cinque o dieci minuti. Quelli provocati volontariamente, come ovviamente mi aspettavo, non sono mai apparsi, consentendo così a T. di volersi molto più bene.
Alla base di questo risultato positivo ben oltre ogni aspettativa, sia per la estrema brevità del trattamento, sia per la remissione quasi completa degli episodi dolorosi, c'è ovviamente l'individuazione quasi esatta della radice del malessere psichico e quindi fisico di T. Un malessere fatto delle cose fin qui dette e - cosa che probabilmente non è ancora stata messa nella sua giusta evidenza - dalla conflittualità concorrenziale con la sorella maggiore. Una conflittualità nella quale si gioca, oltre a tante altre cose, la supremazia negli affetti familiari e segnatamente dei genitori. Un punto, questo dell'affetto, dove T. ha i nervi particolarmente scoperti, tanto è vero che l'esplosione del mal di testa si registra sistematicamente anche quando i compagni di scuola, per i più svariati motivi, "ritirano" la loro amicizia e relative manifestazioni nei suoi confronti. Quando, insomma, T. avverte che le sue posizioni di primato vengono "limitate" o peggio insidiate da altri concorrenti.






Dott.sa Francesca Ceccherini